giovedì 24 ottobre 2024

VALE LA PENA PRATICARE?



 



“Che cosa è la mente?

Secondo l’Enciclopedia Treccani per mente si intende:
Il complesso delle facoltà umane che più specificamente si riferiscono al pensiero, e in particolare quelle intellettive, percettive, mnemoniche, intuitive e volitive.
“Andare oltre la mente” potrebbe significare, quindi, avere accesso ad una conoscenza che esula dalle ordinarie facoltà intellettive e percettive, che viene detta, nello Yoga Pratibhā (प्रतिभा) – letteralmente “luce, “splendore”.

In buona sostanza, “andare oltre la mente” sembrerebbe una gran bella cosa, tanto più che, dal saggio Vyāsa si viene a sapere che la realizzazione di prātibha preannuncia quella di “vivekajñāna” la conoscenza discriminativa grazie alla quale lo Yogī potrà, finalmente, raggiungere la realizzazione suprema, detta Kaivalya;

Kaivalya è una condizione che viene così definita:
Kaivalya è la natura stessa del sé, lo stato supremo (paramam padam). 
È senza parti ed è inossidabile. È l’intuizione diretta dell’esistenza reale, dell’intelligenza e della beatitudine. È privo di nascita, esistenza, distruzione, riconoscimento ed esperienza. Questo è chiamato conoscenza.”

Kaivalya, è un sostantivo neutro, derivante dall’aggettivo “kevala” che vuol dire “solo”, “isolato”, “soltanto uno”; potremmo tradurre kaivalya con “isolamento” o con “solitudine”, parole che in noi, a dir la verità, non è che stimolino pensieri troppo positivi.

Anzi, nonostante ciò che diciamo nelle discussioni da social, l’idea che la meta ultima dello yoga, la realizzazione raggiungibile grazie alla conoscenza, sia in realtà uno stato di estrema solitudine è decisamente angosciante.

Ci insegnano che lo yoga conduce alla beatitudine suprema e alla fine, studiando, scopriamo che lo Yogī è destinato al completo isolamento.

Si tratta di un insegnamento, difficile da digerire,

“Andare oltre la mente”, realizzare la “conoscenza”, significa quindi intraprendere un viaggio che dovrebbe condurci a “kaivalya”, la solitudine perfetta.

La domanda che noi praticanti di Yoga dovremmo porci, a questo punto, credo sia la seguente: siamo sicuri di voler abbandonare la dimensione della manifestazione?

Certo, la condizione di kaivalya è quella dell’assenza di sofferenza, e pare ovvio che “andando oltre la mente” supereremmo l’innata ansia di incompiutezza dell’essere umano, l’angoscia di vivere che ci serra la gola dal momento in cui diventiamo consci della mortalità nostra e dei nostri cari; ma rinunceremmo anche all’esperienza della gioia, al godere della bellezza del tramonto o del sorriso dell’amato. 

Siamo sicuri di voler davvero rinunciare alla razionalità, all’esperienza individuale, ai colori della natura, in una parola sola alla “Vita”, per accedere ad una dimensione di non dolore nella quale non possono esistere né mente, né sensi, né “io” che possano testimoniare un’esistenza in forma di pura coscienza, eterna ed incolore?”

Laura Gabriella Nalin e Paolo Proietti

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